Varcare un confine trasparente ed è come non avere abbastanza vista per guardare tutto. Il roadtrip prosegue all’interno della Valle della Morte.
Mentre ci dirigiamo all’interno della Death Valley, oltrepassando un’entrata che da ovest varca un confine inesistente, segnato solo da un cartello stradale ed un paio di edifici in stile western a cui ci avviciniamo dubbiosi per chiedere informazioni, l’intensità del vento è visibile dalle bandiere americane che sventolano veloci sopra quella specie di residence al lato destro della strada.
I siti web che ho consultato prima la sera precedente dicevano di dover acquistare un biglietto per l’ingresso, ma varcata la porta d’entrata immaginaria al lato opposto di quel residence un po’ strano ma carino c’è un altro edificio, piccolo e poco riconoscibile. L’immenso parcheggio di fronte all’edificio sul lato sinistro dell’enorme strada che stiamo percorrendo non ha insegne né cartelli ma ci sono delle auto parcheggiate. Così posteggiamo l’Astrocar e scendiamo dall’auto per chiedere informazioni all’interno. Scendendo il vento mi sorprende con intensità e freschezza che mi fa sentire i brividi di freddo, mi scompiglia i capelli che si infilano sotto gli occhiali da sole che devo portare per forza perché la luce del sole è troppo forte.
Entrando, scopriamo un piccolo casottino con appese ai muri delle enormi cartine geografiche e mappe del parco nazionale. Solo tramite quelle strade che percorrono la Death Valley sembrano già immense. Paghiamo due entrate a circa 15 dollari a testa. Mi chiedo da buona italiana cosa sarebbe successo se non ci fossimo fermati a chiedere informazioni, chi ci avrebbe controllato? Non vedevo telecamere, non vedevo controlli e nulla lì intorno faceva presagire di poterli incontrare più avanti.
Era solo ed esclusivamente deserto, non riuscivo a immaginare una qualche pattuglia sparsa a chilometri di distanza da qualsiasi servizio dedicato agli umani. Non lo penso per trasgredire la solo perché quando vedo queste cose penso che non potrebbero mai funzionare in Italia. Obbligo di biglietto senza nessun controllo. Chi vogliamo prendere in giro, non funzionerebbe mai. Proprio come quando in Germania o in Olanda i giornali sono sparsi per le strade all’interno di quei piccoli stand trasparenti dove metti spontaneamente i soldi spiccioli e prende il giornale. Forse ho poca fiducia nella nostra cultura della truffa ma non riesco a convincermi del fatto che in Italia potrebbe funzionare. Forse è questione di onestà o forse è semplicemente un funzionamento comportamentale, prima di paga poi si prende, anche se nessuno guarda. Un modo di introiettare comportamenti fin dagli albori delle abitudini culturali, ma perché in alcuni popoli funzioni meglio e in altri peggio, lascia spazio non tanto alla ricerca di risposte certe, quanto a quali domande porre per scoprirle.
Ad ogni modo, la sosta è stata utile per comprare una toppa da affiggere alla mia giacca di jeans dell’amicizia – che alterno periodicamente con la mia migliore amica (che viaggia con me durante questa esperienza) – con su scritto Death Valley National Park e fare una sosta bagno. Un check dell’acqua da portarci dietro, qualche snack, macchina fotografica alla mano mentre Chiara sta guidando. Avevamo abbastanza provviste per l’intera giornata, in effetti ieri sera l’avevamo dedicata alla preparazione di oggi, quindi potevamo partire.
Mi arrampico sull’Astrocar come ogni volta che devo salire o scendere, chiudo lo sportello, facciamo manovra e si va. La Statale 190 che stiamo percorrendo è una strada da desktop di windows che faccio fatica a descrivere, mi sembra di stare in uno sfondo di windows animato. Oltrepassata l’entrata la strada si fa sempre più deserta. Il percorso lascia senza fiato per la sua immensità e ripendo immediatamente alla prima sensazione che ho avuto il giorno precedente percorrendo la strada per arrivare a Bakersfield. Quella non era nulla. Non avevo ancora capito cosa fosse l’immensità. Il paesaggio attorno a me che cerco di fotografare e riprendere con la mia Olympus EM-10 mark III è difficile da immortalare, ma non solo perché non riesco a rendergli giustizia, ma perché la luce così intensa mi mette in difficoltà nel regolare le impostazioni di scatto della mia mirrorless che sto ancora cercando di imparare dopo anni.
Le mie riprese video del deserto solo talvolta interrotte da qualche auto che incrociamo durante il tragitto. Sembra si stare completamente sole, in mezzo al deserto senza linea nel telefono e senza nessun altro essere umano, e per ora nemmeno animale, se non qualche gigante insetto piazzato in mezzo alla strada come fosse un grosso sasso nero che per qualche chilometro non ho riconosciuto, ma che evito di chiamare per nome per via della mia aracnofobia. Da quel momento mettere piede giù dall’Astrocar sarà un’impresa di controllo e del territorio a me circostante.
A circa due ore dall’ entrata un’auto bianca come la nostra si è accostata sul lato destro della strada. Mamma e papà fanno scendere un ragazzino di circa 5 anni, che fa un salto e inizia a correre tra le dune di sabbia come se non avesse mai visto posto più bello. Ho pensato a quanto quei genitori fossero vogliosi di viaggiare, per trasportare un bambino così piccolo per ore dentro un’auto. Accostiamo, glielo chiedo. Prima di scendere perlustro dall’auto la strada per confermare che non ci siano quegli insetti spaventosi che non riesco a chiamare per nome. Mi avvicino incuriosita e un po’ titubante, saluto e scambio qualche parola di cortesia. Vengono da Philadelphia e stanno viaggiano gli USA per un paio di settimane. Gli chiedo com’è viaggiare in macchina con un bambino così piccolo e sinceramente mi sento stupida una volta sentita la risposta.
“Per te com’è viaggiare in macchina?” mi chiede lui sorridendo con umiltà, rispondo che per me è bello guardare fuori dal finestrino e che mi piace molto. “Anche per Luke è così, gli piace guardare fuori e fare tante domande, però ogni tanto ci fermiamo per fargli prendere un po’ d’aria e sfogarsi”. Li salutiamo e ci auguriamo a vicenda buon proseguimento.
Non posso fare a meno di pensare che troppo spesso ci creiamo problemi che non forse non sono reali. Perché un bambino si dovrebbe annoiare per forza ? Perché il nostro modo di pensare ci preclude così tante risposte semplici che non vediamo perché complichiamo senza motivo? Forse non è sempre semplice, ma può anche esserlo qualche volta. Quella risposta mi ha dato molto su cui riflettere, una semplicissima affermazione delle uniche persone in cui ci imbattiamo all’interno di un deserto sterminato. Ci rifletto per un po’ mentre osservo ciò che ho attorno.
Qualche persona si incontra ma per la maggior parte del tempo il deserto è deserto in tutti sensi. Eppure i dati ufficiali sul sito National Park Service affermano che la Death Valley è visitata da almeno 1 milione di visitatori l’anno, che anche se spalmati su 365 giorni dovrebbe comunque risultare visibile il giorno in cui ci siamo andate noi. Questo dato da contezza di quanto effettivamente possa essere immenso questo spazio di territorio.
La Death Valley si estende per circa 13.650 chilometri quadrati, il che oltre a renderla uno dei parchi nazionali più grandi degli Stati Uniti fa anche sì che molte aree siano davvero poco affollate. Molti turisti tendono a rimanere nelle zone più popolari, come Badwater Basin o Zabriskie Point – che abbiamo visitato anche noi – mentre altre parti del parco possono sembrare deserte.
Il deserto alterna paesaggi sabbiosi a altri rocciosi, i colori che si susseguono passano dal giallogrigio della sabbia che in base alla luce del sole cambia colore, al arancionerosso che fa lo stesso sulle immense pietre e rocce. Le piante che sopravvivono nel deserto sono parte di un disegno che sembra funziona perfettamente. La natura nella sua forma più estrema che trova il suo equilibrio creando un paesaggio che da solo si distrugge per poi ricostruirsi e ristabilirsi. Tra Joshua Tree, Creosote Bush, varie specie di Cactus che non avevo mai visto, Tamarisk e Broomweed scopro piante che non ho nemmeno mai sentito.
Mentre ci addentriamo sempre più negli sterminati paesaggi della Death Valley inizio a pensare immediatamente ad una cosa che avrei dovuto fare prima dopo o durante queto viaggio “come si descrive il deserto?” Una domanda a cui ancora non so rispondere. Inizio a pensare “descrivendo i colori? Il paesaggio? Specificando che tipo di deserto è?” Forse si, ma credo che a rendere al meglio il significato dell’immagine del deserto sia la descrizione delle sensazioni che si provano vivendolo. Le parole mi abbandonano quasi subito e le foto che cerco di scattare compulsivamente con la mia Olympus non riescono a coglierne l’immensità. Ma la sensazione che percepisco appena dopo lo spaesamento iniziale è difficile da descrivere.
È una sensazione molto potente. La vastità di quello che vedo mi fa sentire più piccola di come sono davvero, è una bellezza primordiale, come se tutto tornasse al principio. Mi provoca una sorta di connessione profonda con il nulla cosmico, che non so nemmeno cosa sia, ma è come se lo stessi vedendo. È come se gli occhi non riuscissero a vedere abbastanza per tutto quello che c’è da vedere. Sono pienamente soddisfatta, ma sento anche una sensazione di voler condividere ciò che vedo con chi non c’è, e so che le foto che gli invierò non spiegheranno quello che vorrei davvero.
Quello dentro la Death Valley non è un itinerario turistico, contrariamente a come viene viene pubblicizzato ma un’esperienza lontano dal mondo civilizzato, lontano da internet e da qualsiasi connessione con qualcosa che non è presente. Ore ed ore nel deserto senza mai avere contatti con il mondo al di fuori di quello che c’è davanti ai miei occhi.
Tra le dune soffici e ventose di Masquite Flat, le montagne striate di Zabriskie Point, Fournace Creek, Dante’s View, la valle della morte è fatta di decine e decine punti in cui fermarsi per ammirare ciò che ha da offrire.
Quel deserto che ci stiamo lasciando alle spalle uscendo tramite la statale 190 est lascia a poco a poco spazio a qualche cenno di urbanizzazione. Un distributore di benzina dove ci fermiamo constatando di essere ufficialmente nello stato del Nevada. La US-96 è segnata sui cartelli stradali e anche sul cemento. Il tramonto sta iniziando alle nostre spalle mentre a poco a poco ci inseriamo in strade sempre più trafficate e varcando il confine della città di Las Vegas.
Quando le persone raccontano che già in lontananza si iniziano a vedere le luci della città, ora so che è la verità. Il paradosso di passare letteralmente da un territorio di completo deserto ad un’urbanizzazione tale è quasi sconvolgente, ma d’altronde se è vero che gli ideatori della città della Sin City – la città del peccato – volevano che fosse visibile dallo spazio, qualche cosa sulle luci e i colori della città doveva pur essere vera.
Ci vediamo al prossimo capitolo! Fammi sapere se ti è piaciuto il racconto con un commento qui sotto e se ti va si vedere altri contenuto seguimi su Instagram nella mia pagina @marginalmente___
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